martedì 24 febbraio 2009

Teofania diretta

Il piede incauto fa schizzare il fango
che la notte
e la terra umida non possono asciugare

fuori non piove più
e pesando ogni passo che mi allontana da te
sento che ricomincia dentro
ritrovandoti nel gelo intorpidito
sì, ora ricomincia a piovere

mi sposto dalla strada
su un cemento lucido d'insidie
panchine e infissi
in un modo o nell'altro mi troveranno
le angosce

pensare o non pensare a niente
panchine e infissi
credevano che non lo sapessi
che non ero solo
le angosce

t'avrei bisbigliato
che sono tuo e non sarò più d'altri
che foglie e alberi
avrebbero conservato quel segreto
che sarei tornato a bere nuove emozioni:
il vento e il sole
e le mani viola strette attorno ai polsi caldi
e baci sfamati nella tenera fragranza
del meriggio più atteso
e quel mare negli occhi e le parole dense

se pioggia e lacrime non si confondessero
avresti capito
che non posso permettermi
quest'eterna fame
avrei capito
immaginandoti come un treno in arrivo
che rallenta e non si ferma mai

guardo il cemento lucido
riflette, quasi acceca
perché la luna si sta alzando piano
ma tutto poi vi scivola
acqua e speranze

non mi libererò più di te
perché di te ho costruito
l'involucro di spini sul mio cuore

lunedì 23 febbraio 2009

Scialbe autarchie

Mieti in pieno la rabbia
soltanto dove non c'è avversione
vedi bene adesso il tuo ruolo
e la luce trova la strada al tuo livore serbato
amplifica saggezze
sceglie le parole più dure

non lo ammetterai mai
hai solo imparato a sorreggere
lo squallido pretesto
per sopravvivere a quelle ferite aperte
nella facilità di un compromesso
disarmante come non lo era stato mai
vivo

nascosto non è cancellato

riprendendo in mano
i pezzi di una distratta riflessione
ascolterai quel rancore malcelato
forse ancora si muove

è la prassi distenderti quando dovresti fuggire
luna nuova, nuovo corso
porti in me l'incoscienza più amara
che in terra ostile afferra la realtà
dalla mia solida gabbia d'illusioni
di giorno in giorno la sento, pulsante
come un uragano mai spento nel petto
ormai assuefatto al desiderio
di trovare imprudenza nella tua arrendevolezza
e fermo l'istante senza colpe di un errore
e ho sete di te e paure
privarmene domani non sarà più un problema
se solo domani diventasse ieri

che il tempo non aiuterà a strappare il ricordo
lo sapevi già prima di quegli occhi
nei tuoi

mercoledì 18 febbraio 2009

Sanguino nella tua bellezza

Venti minuti di ritardo. Ci scusiamo per il disagio.
Venti anni di ritardo. Ci scusiamo per l'intrusione.

Rosico.
E rosico come non ho fatto mai in vita mia.
Rosico, rosico, ma soprattutto rosico.
Rosico smodatamente e febbrilmente.
Vorrei che fosse chiaro, sì, sto rosicando.
Non per essere ridondante, ma ci tengo a sottolineare che rosico.
E non faccio altro.

Frustrazione.

Vorrei prendere a pugni il muro, e ridurmi le mani come Dae-su. Ma non ho le palle per farlo davvero, perciò mi accontento di dirlo tra me e me, e di immaginarlo. Non è la stessa cosa ma per un istante dà l'illusione che forse, un poco, aiuta.

Come quando hai davanti un pezzo di torta, della più gustosa che tu abbia mai visto. Ma ti dicono che puoi solo assaggiarne un pezzettino minuscolo, e che il resto non puoi toccarlo, che non è per te, e che anche volendo, non potresti mai averlo.

Poi torna l'alba e tutto ricomincia uguale a prima.
Si torna a perdere lentamente sangue senza ferite, un po' senza accorgersene, un po' perché in fondo lo si vuole, perché alla fine piace. Piace eccome.

domenica 15 febbraio 2009

Marco e Giulia

- Zitto! E' il suono della pioggia che sta battendo sul vetro. Zitto.
- E tu per questo mi hai detto di fare silenzio?
- Ascolta! Senti come ticchetta ora.
- Ma...
- Chiudi gli occhi! Che ti sembra?
- Ma... non lo so... è come... il rumore delle unghie di una mano... è un ritmo... fai caso alle pause, alle riprese...
Un secondo dopo si era già avvolta nelle coperte, e lo guardava incessantemente, da là sotto. Soltanto la testa spuntava fuori, aveva i capelli legati. Gli sorrideva, e agli angoli degli occhi si era accesa quella solita luce che lui bramava tanto. Non le disse cosa gli frullava per la testa, no. Forse l'avrebbe strappata via dal suo viso, se solo avesse potuto, quella luce, con le sue stesse mani.


Giulia non si è più voltata indietro, quella mattina. Continuava a camminare lungo il sentiero cosparso di foglie secche, ascoltava il vento che le sussurrava, sentiva nel petto una strana emozione. Mentre schiudeva le labbra secche, inumidendole con la punta della lingua, la sensazione di avere un nodo in gola si impadronì di lei in un attimo.
- Ti aspetto alla solita panchina, alle dieci in punto. Ci sarai?
Ripassava queste parole nella mente confusa, allontanandosi sempre più da quella panchina verde un po' speciale, magica. Perché lui non c'era? Cosa poteva essere mai successo? E mille altri interrogativi la angustiavano. Aveva la fronte corrugata, l'espressione malinconica e accigliata. Per non pensarci, aveva iniziato a contare i passi. Ventuno, ventidue. Tutto inutile. Dopo aver emesso un lungo sospiro, e respirata l'aria frizzante del parco, era tornata al suo motorino, parcheggiato lì un'oretta prima. Quasi senza volerlo, senza accorgersene, si era ritrovata proprio in quel punto esatto. Si stringeva tra le spalle, mascherando con disinvoltura il disappunto, mentre con estrema cura toglieva e avvolgeva la catena. Casco, chiavi. E la strada verso casa, amica di centinaia di viaggi e ormai così familiare per lei.


Era felice, così felice di rivederla. La osservava nel suo silenzio, sentiva che c'era un'atmosfera particolare. Dille qualcosa, e anche subito, si intimava da solo.
- Posso spiegarti per ieri, è che...
- Te l'ho forse chiesto?
Era rimasto interdetto. Sentiva i sensi di colpa che come mannaie affilate gli laceravano la carne, strappandogli i vestiti di dosso e lasciandolo nudo e inerme di fronte a lei. Avrebbe voluto fare qualcosa di bello in quel momento, per riscattarsi, qualcosa che lei avrebbe potuto apprezzare davvero. Vorrei avere la capacità di aggiustare le cose con la stessa abilità con cui invento scuse pietose, si era detto. Sentiva nel suo tono secco e leggeva nel suo sguardo indurito note di insofferenza poco piacevoli. Dovrò cominciare ad essere anch'io così intransigente con me stesso, pensava. E intanto la guardava con l'aria di chi è innocente ed è stato frainteso.
- Marco, si può sapere che hai?
Non aveva replicato a quella domanda. Dopo tutto, lei era così, e lui lo sapeva bene. Erano così simili, eppure ogni volta riusciva a stupirlo. Ogni volta si meravigliava, perché lui avrebbe dovuto prevederla, avrebbe dovuto capire e anticipare le sue mosse, ma più passava il tempo e più si rendeva conto di non conoscerla così bene come si aspettava. Non aveva detto nient'altro, l'aveva abbracciata, cingendole entrambi i fianchi piuttosto mollemente, senza forzare. La sentiva che lentamente si abbandonava al suo gesto. I loro corpi tiepidi si erano avvicinati, ed entrambi avevano sentito il calore dell'altro aumentare e farsi più concreto. In piedi di fronte la facciata di quel palazzo antico, per lunghi attimi avevano smesso anche di respirare. Con i gomiti e gli avambracci sul suo petto, allontanando il busto e inarcando la schiena all'indietro, si era messa a guardarlo con intensità, mentre ancora le mani e le braccia di lui le attorniavano l'addome, sorreggendola in equilibrio e permettendole di sbilanciarsi.
- Devi dirmi qualcosa?
- Mi fai impazzire.
Di getto, senza nemmeno pensarci un secondo di più, le aveva risposto istintivamente. Subito dopo aveva abbassato la testa per baciarle dolcemente il dorso di una mano che Giulia aveva poggiato candidamente sul suo collo, suscitando in lei un leggero imbarazzo. Vedeva chiaramente che stava arrossendo poco a poco, accorgendosi anche che aveva iniziato ad accarezzargli una guancia con la stessa mano, come per contraccambiare. Era come inebetito da quel gesto d'affetto, e la guardava così teneramente da costringerla, dopo alcuni secondi di sospensione, ad abbassare gli occhi a terra. Ora si accorgeva fino in fondo di quanto fosse bella e di quanto realmente potesse piacergli, ad un livello che non si sarebbe mai immaginato: trovava sfumature, particolari che al tempo stesso erano per lui entusiasmanti e terrificanti. Perché si sentiva quasi atterrito, capiva che scavando a piene mani nella sua bellezza avrebbe trovato alla fine della sua ricerca lo sgomento e la consapevolezza di essere totalmente assoggettato a lei, completamente in suo potere. Perché ne era spaventato, e affascinato. Guardava i suoi capelli scuri mossi dal vento leggero e illuminati dal sole, le fossette delicate ai lati della bocca che nascevano ad ogni suo sorriso, il chiarore appena accennato delle morbide guance. Non ci sarebbe stato nient'altro che quest'immagine di lei nella sua mente per i successivi, interminabili minuti che avrebbe passato al suo fianco. Cominciava anche a chiedersi se fosse davvero innamorato, stavolta. Non può finire sempre male, non stavolta, rifletteva in cuor suo. Lei gli sorrideva e indugiava con lo sguardo sulla sua bocca, rievocando il pensiero di un bacio violento e coivolgente, come le piaceva tanto riceverne. Marco lo sapeva bene. Sì, aveva proprio voglia di baciarlo in quel momento, ma si stava trattenendo. Forse voleva fargli pagare qualcosa.


- Fatti vedere meglio!
Nel frattempo si allontanava di qualche passo. Era così alto... Mentre si metteva sulla punta dei piedi, si accorgeva di arrivargli soltanto al mento. Vedeva bene la sua barba rada, la pelle imbrunita dal sole, molto più abbronzata della sua. Il suo viso tondo, un sorriso gentile appena accennato, gli occhi castani, allungati, tenuti socchiusi, e quella piccola cicatrice vicino al labbro su cui era solita fantasticare tanto. Con la coda dell'occhio si era accorta che lui stava allargando le braccia e alzando le spalle, in un gesto continuo, pacato e armonioso.
- E che devo fare? Non mi muovo, sai.
Rise sommessamente, e non smise di sorriderle nemmeno per un momento. Era buffa quando si comportava in modo strano, pensava lui.
- Non li metto i tacchi per uscire...
- Te l'ho forse chiesto?
I loro sguardi si erano incrociati, si erano trovati per qualche secondo. Nessuno aveva desistito, o guardato altrove. Lui continuava a sorridere, lei era diventata seria dopo quelle parole, come se l'avessero fatta di colpo incupire. Perplessa, aveva inarcato un sopracciglio. In tutta risposta, lo osservò mentre serrava gli occhi e riprendeva il discorso.
- Ascolta, devo dirti una cosa. Una cosa che devi sapere...
- Marco, non mi interessa.
- Ma devi saperlo. Non voglio che tra noi ci siano segreti, e preferisco dirtelo io.
- Se ti fa star meglio parla. Ma non cambierà niente.
Lungo silenzio. Intanto aveva riaperto gli occhi. E scrutava Giulia, mentre cominciava a raccontare.

domenica 8 febbraio 2009

Onirico

Mi chiamo Delirio, e questo è il sogno alquanto strano che la mia testolina ha deciso di partorire stanotte.


Ero in giro, non so bene dove, un marciapiede largo e frequentato, aria umida e vento caldo, avevo le mani in tasca e passeggiavo non troppo velocemente, per poter guardare bene le vetrine dei negozi. Pomeriggio inoltrato con poca luce, venditori di ombrelli, bancarelle imbottite di cianfrusaglie che la gente si limitava a guardare mentre passava. Apro una porta scura con una grande maniglia di ferro, come se già sapessi perfettamente dove mi stessi recando. Vedo un bancone, due signori dietro, ognuno davanti a un monitor. "Che strano posto, così artificiale" ho pensato; l'ambiente era piuttosto piccolo, con due grandi lampade di luce bianca che pendevano dal soffitto e creavano un'atmosfera strana. Mi avvicino, tanti cellulari nelle teche davanti a me, conservati sotto vetro quasi come reliquie. Un signore mi sorride dicendomi "posso esserle utile?". Cercavo un telefonino, gli dico questo, più o meno. Gesticolo un po', per fagli capire meglio cosa voglio intendere, evidentemente non sapevo bene il modello quale fosse. Mi fa vedere un telefono che prende da uno scaffale, lo ricordo bene, è Nokia, tutto nero opaco, modello slim a scorrimento, con la tastiera numerica nascosta quando è chiuso (chissà se esiste sul serio, ndr). Guardo nella scatola, ci sono le istruzioni, il manuale da cento pagine, la custodia, il carica-batteria, manca l'auricolare però, e glielo faccio presente subito. Ne tira fuori uno sempre della stessa marca, color argento, e mi dice che può essere mio a soli ventiquattro euro e novanta centesimi in più. Ci penso su qualche istante, poi annuisco. Intanto l'aria si fa pesante, quasi opprimente. C'è qualcosa che non va, è il mio presentimento. Il tizio, sulla trentina e vestito piuttosto elegante, prepara la scatola, la chiude, mette nella busta anche l'auricolare acquistato a un prezzo bomba, insomma, la procedura standard per vendermi il prodotto. Resto lì, aspetto, mi guardo in giro, mobili rossi, sembrano come verniciati di recente. Di fianco alla cassa, l'uomo poggia la busta con il cellulare, sempre restando seduto, con gli occhi fissi sul monitor del suo computer. "Quanto viene?", gli domando. Nessun responso. Ripeto la domanda. Lui è immobile, fisso in quella posizione. Non muove un muscolo del suo corpo. Alzo la voce, ma nemmeno questo sortisce alcun effetto desiderato. Cerco risposte, invano, e mi accorgo che anche l'altro ragazzo è immobile. La loro pelle è liscia, lucida, come fossero delle statue. Prendo lentamente coscienza della situazione, faccio un passo indietro, il terrore mi attanaglia. Solo mura intorno a me, anche la porta da cui ero entrato non c'è più.


Mi sveglio nel mio letto, inquieto. Premesse: non cerco nessun telefono, anzi, mi trovo benissimo da oltre un anno con il mio N70 ipertecnologico; non ho mai visto quei posti e quelle persone, o forse semplicemente non li ricordo; erano anni che non ricordavo un sogno. Ho dovuto ripeterlo più volte questa mattina, nella mia mente, per poterlo fissare bene e non dimenticarlo; altrimenti, tutto sarebbe stato vano. I miei sogni, quelle rare occasioni in cui la mattina ho qualche immagine ancora nella testa, svaniscono con una rapidità inaudita, lasciandomi un po' con l'amaro in bocca, con la colpa di essermelo fatto sfuggire, con la consapevolezza che non tornerà più, con la curiosità che non sarà mai appagata. Chissà qual è il significato di questo, sempre se ne ha uno. La prima cosa che mi viene da pensare è: tentare una meta, un obiettivo, e sul più bello non riuscire a raggiungerlo. Una situazione spiacevole e frustrante, in effetti. La sensazione di sentirsi in trappola, chiusi in una gabbia avulsa dalle proprie sicurezze. Una metafora della mia vita, o c'è dell'altro?

sabato 7 febbraio 2009

A1 (del Sole)

Leggevo una cosa scritta di getto, circa quattro mesi fa, che mi ha fatto sorridere un po'.


Milano, 02/10/2008, 23:30
"E' tardi, domani devo alzarmi, che palle. Ci sarebbero molte altre banalità da dire. Ormai scrivere su di me sta diventando noioso, oltre al fatto di venire tacciato di egoismo. Scriverò qualcosa sugli altri allora, giusto per annoiarvi un po' meno, e poi è più di un mese che non scrivo nulla, quindi se vi siete già rotti di leggere che ci fate ancora qui, andatevene no? Dicevo, riprendendo il discorso (mai inziato) su questa insulsa città (come tutte le grandi città, non ci fate caso, sono io che amo la vita di campagna), vi narrerò quello che succede da queste parti. O meglio, quello che è il ritratto della gente che popola questa ridicola città. Carino il Duomo, devo ammetterlo, ma resta comunque ridicola. L'altro giorno tornavo su a Milano in treno e una signora seduta vicino a me faceva ritorno a Lodi dopo essere stata un mese dai genitori ormai anziani in Puglia. Come potete vedere mi ricordo tutti i particolari, strano visto che non ricordo cosa ho mangiato ieri sera. Beh, questa qui prima mi guardava (sarà una ninfomane, oppure era semplicemente attratta dal mio seducente e accattivante aspetto fisico), poi ha iniziato a parlarmi di lei, della sua stupida vita, dei ritardi dei treni, delle tendine che si incagliano e ti arriva il sole in faccia, dei suoi sette splendidi cani, barboncini bianchi nani rasati alle zampe e sul dorso per farli sembrare vagamente delle goffe palle di candido pelo, eccetera. A un certo punto ha tirato fuori il cellulare per farmi vedere le foto dei suoi meravigliosi barboncini, con tanto di cornici coi cuoricini. Dico a lei! Sì, proprio a lei, se è una signora sulla quarantina che ultimamente ha viaggiato in Eurostar sull'Adriatica e possiede sette splendidi barboncini, si lasci dire una cosa: ma cosa diamine vuole che me ne importi dei suoi mostriciattoli abbaianti? Con tutto il rispetto per i cani, che adoro, ma quelli non erano degni di essere chiamati cani, facevano proprio pena, e non ho alcun rimorso nell'urtare la sensibilità di tutti i propietari di barboncini che stanno leggendo. Dunque, dicevo qualcosa. Ah sì, ma perché la gente crede che tutto quello che gli riguardi sia interessante? Bah. Non potevo nemmeno ascoltare l'i-pod con quella che mi continuava a parlare nell'orecchio, sotto lo sguardo di biasimo degli altri intorno a noi, costretto per mezz'ora buona ad annuire ad ogni sua frase. Ho ancora troppo tatto per dire a una signora lombarda amante dei barboncini che i suoi figlioletti non rientrano nella lista dei miei interessi e nemmeno in quella dei miei argomenti di conversazione. Non prendetemi per spietato, vorrei vedere voi in quella situazione. L'altroieri ero in autobus invece, non ricordo dove stessi andando di preciso, ultimamente giro parecchio. Un'adorabile vecchina si avvicina e incrocia il mio sguardo distratto, al che la mia coscienza di cittadino modello mi dice "cazzo fai là fermo, alzati e cedile il posto, cafone". Risposta: "no", secco, sibilante, contornato da uno sguardo quasi di disprezzo, di superiorità, di ego ferito, di persona "incazzata perché mi hanno dato della vecchia e il mio orgoglio non può tollerare un simile affronto". Ma allora vai a quel paese, scusa! Uno va per farti un favore e lo ripaghi con freddezza, distacco e senso di superiorità. E' normale una cosa del genere? Mi sarei accontentato di un "no grazie non ti preoccupare scendo tra poco", mica chiedo tanto. I tempi cambiano, diceva qualcuno che non cito perché non conoscete "o tempora, o mores". La prossima volta dirò "signora, se mi implora in ginocchio di lasciarle il posto a sedere perchè la caviglia non la regge più, l'artrosi le dà noia e le vene varicose iniziano a farle male, beh, forse se mi impietosisce abbastanza mi alzo, però dico forse, poi vediamo". Dove andremo a finire? In ogni caso basta con le cazzate, ho passato questo quarto d'ora abbastanza bene in fondo, ho scritto un po' di vaccate che a rileggerle tra un paio di centilioni d'anni faranno ridere i polli vallespluga. Notte a tout le mond!"


Ammetto che quello che pensavo allora, non è cambiato poi granché, la considerazione delle cose resta la stessa, forse con un pizzico di consapevolezza in più. Certe volte ripenso alla Capitale, così grande e sconfinata che ti ci puoi perdere con facilità estrema, ripenso ai soliti percorsi, al 409 dall'Arco di Travertino, al capolinea del 545 ogni mattina nel freddo della piazza a guardare il cantiere della metro sempre uguale e immobile, ai tram 5, 14 e 19, al Doner Kebab di Largo Preneste, a piazza San Giovanni stracolma di Maggio e alla fame chimica delle 3 di notte, ai cartelloni strappati della Prenestina, al notturno sempre strapieno di extracomunitari di ritorno a Centocelle, al calore del Sole anche a gennaio, agli scrosci improvvisi, al supermercato di piazza Malatesta, alla ragazza dell'Illy Bar, alla prima volta che ho fatto la fila in segreteria alla Sapienza, a qualche amico sparso da qualche parte, a via del Corso pullulante e fremente di vita, all'Obelisco e ai cinesi davanti al Colosseo, alla scalinata di piazza di Spagna e al muretto di fronte la chiesa dove ammiravi la cupola di San Pietro e ti sembrava di avere in pugno tutta la città, al Lungotevere e alle acque salmastre, al cinema e ai film visti a Repubblica, alla Footlocker sulla Tuscolana, al ristorante mongolo in via Regina Margherita, a Termini piena di tifosi scortati dalla polizia, alla gente che ti saluta senza conoscerti, allo smog e alle macchine che ti sfrecciano a due centimetri dal piede, alle code e ai semafori interminabili, alle ragazzine di quattordici anni in minigonna a Castro Pretorio che aspettano la metro per andare in discoteca alle cinque del pomeriggio e sentirsi un po' più grandi, ai giardini dell'università dove ogni tre secondi ti fermano per chiederti se hai una cartina e dove tutti si siedono per studiare, amoreggiare o sognare un'altra vita, alle storie sentite raccontare in giro un po' qua e un po' là, al centro sociale di Forte Prenestino, alle pozzanghere e agli uccellini che maledici per averti svegliato col loro cinguettio a mezzogiorno, al teatro di non ricordo più dove e al concerto dei Batxoki, al treno per Fiumicino e al Parco Leonardo e al Roma Est e ai negozi pieni di luci, a Cinecittà di notte e alla piadina di Ali Babà, alla metro nuovissima di Manzoni e al degrado all'Anagnina, all'Aniene che straripa in un giorno di pioggia sulla Nomentana, a Villa Borghese e quel profumo di gioia, alla sede della polizia di Trastevere e al 3 che non passa mai, alla stazione di Lunghezza e al grande raccordo, a quando ridi delle puttane su via Togliatti e poi pensi a quello che devono sopportare, all'Eur e al Palalottomatica, a via Giolitti e alle bici di fronte la caserma Sami, a piazza Vittorio coi ragazzini che giocano a basket, al Mastro Titta e alle sue cameriere, alle partite di calcetto giù al Bettini. A tutte queste cose. Adesso è solo la pioggia che mette tristezza qui, non più forte e decisa, ma leggera e fastidiosa, che ti entra negli occhi e ti punge la pelle. Però l'alba, il tramonto, il caffé caldo e un libro tra le lenzuola, quelli non può cambiarli nessuno.

martedì 3 febbraio 2009

Nostalgie (parte I)

Un foglio sbiadito, piegato e perso in mezzo a un libro letto tempo fa. In basso la data, 2003.


"Non crederai davvero di passarla liscia."
"No", bisbigliò. Poi guardò meglio, e si accorse che Aaron stava inarcando le labbra in un sorriso appena accentuato. "Mi prendi in giro?"
"Smettila."
"No, smettila tu."
"Sei una bambina quando fai così, Kris."
"Non chiamarmi in quel modo" replicò in tono secco. Era piuttosto irritata, come se non bastasse il vento forte le sferzava il viso e le copriva con i capelli gli occhi, ormai quasi sul punto di lacrimare. Teneva le braccia conserte, nel tentativo di scaldarsi le mani, congelate dal freddo pungente e quasi insensibili, contro l'addome.
"Sai, no, che qualche giorno fa siamo stati chiamati dal preside, io e mio fratello." Rise divertito per un attimo, facendo spallucce. "Ci ha detto che è stata l'ultima goccia. Chissà che diamine voleva. Lo sai che ho fatto finta di essere serio, ma mi veniva da ridere, aveva un'espressione buffissima."
Restò a osservarlo mentre parlava e gesticolava, immobile e silenziosa, seduta su quel tronco fradicio. Una smorfia sarcastica, in aggiunta a un ironico - "bravi" - pronunciato con un filo di voce. Non era del tutto sicura che fosse riuscito a sentirla.
Aaron tornò serio abbastanza velocemente, giusto il tempo di mettere da parte quei pensieri divertenti, focalizzandosi su lei. Socchiuse un po' le palpebre. "Ma stai piangendo?"
"No."
Portò una mano al suo viso, sfiorandole la guancia umida con il palmo e le dita aperte. Cercò di spostarle quelle fastidiose ciocche svolazzanti dietro l'orecchio, per scoprirle il volto, ma in pochi secondi uno spiffero d'aria vanificò il gesto. La ragazza non si scompose di una virgola, mantenendo lo sguardo in basso, sulla sabbia bagnata. "Adesso ricominci con la solita storia che io non so capirti, immagino" incalzò lui, ritraendosi e incrociando le braccia al petto.
Gli lanciò uno sguardo di stizza, e "ho saputo che andrai a Jelgava l'anno prossimo" si limitò ad aggiungere brevemente.
"Chi te l'ha detto?"
"Non importa."
"Non farmi arrabbiare, ti ho già detto che non sopporto quando gli altri hanno la pretesa di decidere cosa sia o non sia importante per me."
"Perché non me l'avevi detto? Che aspettavi?"
Si interruppe prima di emettere alcun suono, con la bocca semiaperta. Voltò la testa dall'altra parte, corrugando la fronte. "Kristine, aspettavo il momento giusto, e in questi giorni ci siamo visti poco. E poi non voglio, non con i miei amici davanti." Alzò lo sguardo al cielo, poi lo riportò sulla grande distesa d'acqua propriò lì, a pochi metri da loro.
"Guardami, Ar. Per favore."
Non disse nulla, limitandosi ad accontentarla. Vide i suoi occhi lucidi.
"Perché?"
"Te lo spiego quando ti sarai calmata."
"Fai quello che vuoi."
"Io? Sempre."
"Ti odio."
"Non dirmi così."
"Sei tu che ti fai odiare."
"E tu non odiarmi."
"Ti amo."
"Ti amo anch'io."