sabato 31 gennaio 2009

Imbarazzismi

Ogni tanto capita che vado al bagno. Sì, lo so. Non sono il solo fortunatamente. Ma di recente rovistando un po' tra depliant, giornali e affini, ho trovato un libricino davvero interessante. E' scontato che me lo sia bruciato praticamente in un'unica, lunga seduta. Seduta in entrambi i sensi, eh. Tra l'altro, c'è anche una incredibile rivista che contiene un articolo che mi ha colpito molto, riguarda l'origine, lo sviluppo e la fine dell'universo, con varie teorie e spiegazioni molto particolareggiate. Mi incuriosisce enormemente la cosmologia e l'astronomia, con tutte le scienze annesse, astrofisica, planetologia e quant'altro. Ma non è questo il punto, comunque. Il libro di cui parlavo spiega le dinamiche dei comportamenti umani nei confronti delle diversità. Un brano mi ha colpito in particolare:


"Conosci le parolacce in italiano?"
"Sì."
"Dimmene una!"
"Extracomunitario!"
"Ma dai! Anche gli svizzeri e gli americani sono extracomunitari!"
"Quindi non è una parolaccia?"
"Certo che no!"
"Anche se ci definisce per quello che non siamo?"
"Sì."
"Allora spiegami perché un ragazzino di 14 anni, solo perché è nato in Italia, mi ha dato dell'extracomunitario, a me che sono in Italia da ormai trent'anni, lavoro, pago le tasse, che mi sono ingozzato di chili di spaghetti e pizza, mi sono sorbito in questi anni tutti i festival di Sanremo, scioperi, crisi di governo, code, tifato per gli azzurri e per di più ho la cittadinanza italiana, sposato con una italiana con figli italiani? ...Forse perché sono nero?"
"..."


La questione, molto probabilmente, è il linguaggio. Chi studia lingue sa bene che proprio il linguaggio ha una certa rilevanza nelle relazioni, che a volte complica, distorce, modifica. Non è un caso che proprio l'italiano si faccia, in un certo senso, approssimativo quando dobbiamo rivolgerci verso chi è diverso, chi non è dei nostri. C'è una coscienza di fondo spesso inespressa. Che però, con un po' di volontà, non è affatto difficile leggere e interpretare. In ogni caso, è un argomento interessante, no? La farò breve, perché sono noioso. Dove voglio arrivare? Proprio da nessuna parte, sono farneticazioni senza senso. Mi capita di riflettere spesso sull'incomunicabilità, sulle barriere volute o non volute che spesso ci poniamo nei confronti degli altri. Sperare che tutti di comune accordo decidano di tendersi una mano per migliorare come prima cosa se stessi è pura utopia, però credere di poter tentare un piccolo escamotage, qualunque esso sia, per non sentire il peso di un pregiudizio non è certo un delitto punito da una sentenza incontrovertibile e mai scontato.

giovedì 22 gennaio 2009

Acqua di rubinetto

Resterei ore sotto le coperte calde, coccolato dall'odore del mattino. Rannicchiato in posizione fetale dopo un brusco risveglio, cercando di non disperdere il tepore del corpo. Rumori da fuori, televisore acceso, fornelli, pentole, risate. E' un movimento così vicino, che la porta chiusa tiene lontano dal mio piccolo rifugio. La luce filtra, non ci vuole poi molto ad abituarsi ai mille pensieri che arrivano tutti d'un colpo, come trasportati dai raggi e fino a quel momento in attesa, sopiti dietro la finestra, di raggiungermi in un frangente di distrazione. Basta solo capire di essere svegli, una consapevolezza che non tarda ad arrivare, e che sortisce lo stesso effetto di una secchiata gelida. Questo è il vero mondo: diverso da quello appena lasciato, diverso, tangibile. Mi alzo per osservare le piccole pozze d'acqua brillare, illuminate dal sole già alto. Una bottiglia d'acqua, senza etichetta, piena per metà o mezza vuota come dir si voglia, attira la mia attenzione e per un attimo smetto di pensare. La pioggia, che ha smesso di scendere da poco, poi ti ritorna in mente inaspettatamente, e tu lo sai. Un'altra pioggia, ben più amara, molto più efficace nello scavare l'animo come fosse una pietra sempre più levigata. E ritorna quella catena di parole incomprensibili per chi non le ha vissute. Ombrello, gelo. Un profumo leggero, da donna. Un ricordo mai cancellato, che rivive ogni volta che può, ogni volta che il pensiero va a sfiorarlo appena e scioglie i suoi lacci pesanti come catene, e ora tutto quello che ne resta è questo foglio celeste arrotolato, fissato da un nastro riccio, sul blu. L'immagine in alto è quella di un tramonto lunare con il mare schiarito dal tenue argento dei raggi, rifratti in parte dalle piccole increspature dell'acqua. Palme ai lati, una spiaggia da sogno. E la prima scritta, che cita così:


Tutta la notte ho dormito con te,
vicino al mare, nell'isola.
Eri selvaggia e dolce tra il piacere e il sonno,
tra il fuoco e l'acqua.

Forse assai tardi
i nostri sogni si unirono,
nell'alto o nel profondo,
in alto come rami che muove uno stesso vento,
in basso come rosse radici che si toccano.

Forse il tuo sogno
si separò dal mio
e per il mare oscuro
mi cercava,
come prima,
quando ancora non esistevi,
quando senza scorgerti
navigai al tuo fianco
e i tuoi occhi cercavano
ciò che ora
- pane, vino, amore e collera -
ti dò a mani piene,
perchè tu sei la coppa
che attendeva i doni della mia vita.

Ho dormito con te
tutta la notte, mentre
l'oscura terra gira
con vivi e con morti,
e svegliandomi d'improvviso
in mezzo all'ombra
il mio braccio circondava la tua cintura.
Né la notte né il sonno
poterono separarci.

Ho dormito con te
e svegliandomi la tua bocca
uscita dal sonno
mi diede il sapore di terra,
d'acqua marina, di alghe,
del fondo della tua vita,
e ricevetti il tuo bacio
bagnato dall'aurora,
come se mi giungesse
dal mare che ci circonda.


Tre fogli, uniti con lo scotch. Nell'ultimo, un secondo disegno: una donna distesa su dei fiori, nell'oscurità, con un vestito chiaro che ne segue le morbide forme, e una foglia in mano, con la quale si accarezza il viso. Altri versi iniziano, subito a seguire:


Ho fame della tua bocca, della tua voce, del tuoi capelli
e vado per le strade senza nutrirmi, silenziosa,
non mi sostiene il pane, l'alba mi sconvolge,
cerco il suono liquido dei tuoi piedi nel giorno.

Sono affamata del tuo riso che scorre,
delle tue mani color di furioso granaio,
ho fame della pallida pietra delle tue unghie,
voglio mangiare la tua pelle come mandorla intatta.

Voglio mangiare il fulmine bruciato nella tua bellezza,
il naso sovrano dell'aitante volto,
voglio mangiare l'ombra fugace delle tue ciglia

e affamata vado e vengo annusando il crepuscolo,
cercandoti, cercando il tuo cuore caldo
come un puma nella solitudine di Quitratúe.


Lo conservo in un posto che solo io conosco, come se custodissi gelosamente una pietra preziosa. Tutto ciò che mi resta è questo pezzo di carta, e sorrido adesso, per la prima volta, verso il sole che fa brillare le pozzanghere.